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Praticare Biodanza è come andare a scuola di salute e felicità

Praticare Biodanza è come andare a scuola di salute e felicità

di Maria Teresa Giannelli (*) docente di  “Regolazione dei conflitti interpersonali” alla Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università La Sapienza di Roma.

Pubblichiamo un estratto degli appunti presi durante l'intervento di Maria Teresa Giannelli al convegno Biodanza e Felicità che si è tenuto il 7 novembre 2015 in occasione dell'inaugurazione della Scuola IBF della Sicilia.

Tradizionalmente la psicologia si è occupata soprattutto di malessere, e quindi di infelicità ma l’infelicità non è l’opposto della felicità.

Possiamo non essere infelici, ma non per questo dirci felici. E viceversa possiamo non essere felici, ma non per questo sentirci infelici. Comprendere cosa s’intenda per felicità, dal punto di vista psicologico, e come questa si realizzi ha richiesto studi specifici.

Del resto studi ormai numerosi provano che la felicità non è un dono piovuto dal cielo, ma uno stato dell’umore che è possibile auto-produrre a patto di saperne creare le condizioni. In questo senso la felicità può essere considerata una sorta di competenza, che può essere sviluppata a condizione di saper abbandonare tutta una serie di abitudini mentali generatrici di infelicità.

La maggior parte delle cause del nostro malessere non riguardano tanto gli avvenimenti della vita, quanto il nostro modo di reagire ad essi. Grandi e ricorrenti generatori di infelicità come sensi di colpa, rimorsi, rimpianti, vengono concepiti nel mondo virtuale della nostra mente, anche se poi producono effetti disastrosi nella vita reale. Insomma, molto più spesso di quanto si pensi, ciò che si frappone fra noi e la felicità siamo proprio noi stessi e il nostro modo di vedere le cose.

Uno dei principali meccanismi cognitivi che generano sofferenza riguarda il nostro rapporto con il tempo.

Possiamo fare del passato una fonte inesauribile di sofferenza pensando, continuamente, ad una particolare storia d’amore, o stagione della vita, come all’età dell’oro, irrimediabilmente perduta. Pensiero reso possibile grazie ad una distorsione della realtà che lascia filtrare nel ricordo solo il buono e il bello di quel periodo o di quell’amore, cancellando tutto il resto.
O viceversa, possiamo ritornare con la mente ad episodi dolorosi del passato, ri-attualizzando continuamente la sofferenza. In tutti e due i casi ci stiamo procurando, nel presente, una dose di infelicità non giustificata da una causa reale attuale. Si tratta proprio di un’infelicità auto-prodotta.

Un altro modo in cui auto-generiamo infelicità è proprio relativo all’anticipazione del futuro, come nutrire paure per pericoli immaginari. Un modo per arginare questo genere di meccanismi perversi è quello di imparare ad abitare il più possibile il presente.

Se impariamo a so-stare nel presente, evitiamo che la nostra mente lavori sul passato e sul futuro in modo pernicioso. Quando abitiamo il presente, come dimostrano gli studi sulla mindfulness, mettiamo il nostro cervello nella condizione ideale per secernere le sostanze del benessere e dell’auto-guarigione.

E questa è una delle prime ragioni per cui considero la Biodanza una “scuola di felicità”, visto che insegna a stare nel qui e ora, ad abitare il presente appunto. La vivencia, caposaldo del metodo, è forse il più potente meccanismo terapeutico che possiamo produrre spontaneamente, evitando il ricorso a farmaci. 

Ma torniamo ai meccanismi mentali generatori di infelicità. Uno molto diffuso è quello di porsi obiettivi straordinariamente elevati, piuttosto che impegnarsi in una “politica dei piccoli passi” e perseguire scopi ragionevoli e raggiungibili.
Spesso invece nutriamo aspettative su di noi, sul nostro lavoro, sul ruolo di genitori o di figli che rasentano l’illusione e portano ad avere uno sguardo costantemente severo verso noi stessi. Enfatizzare l’attitudine al giudizio, quel continuo condannarsi e poi assolversi, fatalmente, prima o poi, porterà a nutrire pensieri di inadeguatezza o impotenza.
“Non posso farcela”. “Non sono abbastanza….”. “Non sono in grado di….” sono voci interiori attivate da aspettative irrealistiche che inevitabilmente provocano una buona dose di infelicità. Se c’è una cosa che rende infelici questa è proprio la valutazione negativa di se stessi.

Anche rispetto a questo meccanismo trovo che la Biodanza abbia qualcosa da insegnare, in quanto incoraggia le persone a non avere aspettative di performance e ad allontanarsi dall’atteggiamento di giudizio verso sé e verso gli altri.
Anche gli altri possono essere una inesauribile fonte di infelicità, grazie a meccanismi mentali relativi ai rapporti umani o a specifici atteggiamenti relazionali. Ne cito alcuni. Non nutrire alcuna fiducia nel prossimo, anzi sentirsene continuamente minacciati, costringendosi a vivere in un costante stato di allerta.
Percepire le differenze di opinioni come un attacco rivolto a se stessi, facendo di qualunque conversazione un’occasione di infelicità. Di nuovo la Biodanza ha qualcosa da dire in merito, in quanto mira a promuovere relazioni capaci di far percepire l’altro, nella sua diversità, come un amico e non un nemico.

Conoscere i meccanismi mentali generatori di infelicità e convincersi che il benessere non dipende tanto dai reali avvenimenti della vita, quanto dal modo di interpretarli, non renderà automaticamente più felici, ma è un passo necessario da compiere se si vuole imparare come guadagnarsi il diritto alla felicità.

Secondo Martin Seligman, psicologo americano studioso del tema, la felicità autentica e durevole è frutto delle gratificazioni che derivano dell’impiego delle proprie potenzialità personali, al servizio di qualcosa di più grande di se stessi.

La gratificazione è diversa dal piacere perché deriva da attività che impegnano a fondo, che prendono totalmente, come conversare con qualcuno con cui si è in sintonia, leggere un buon libro, praticare lo sport preferito o danzare.
Sono quelle attività nelle quali il tempo si ferma, in cui si entra in contatto con le proprie potenzialità, costruendo un capitale psicologico di benessere. Questo è ciò che procura quel senso di felicità stabile inteso come star bene nel mondo, con se stessi e con gli altri. E non è questo lo stato a cui mira la pratica della Biodanza? 

Prendo ancora pochi minuti solo per dire che investire sulla propria felicità è uno dei migliori investimenti che possiamo fare.

E non solo perché provare emozioni positive è appagante, è un piacere in sé, ma perché attiva una disposizione mentale espansiva, tollerante, creativa che dà origine ad un rapporto assai migliore con il mondo. Essere felici migliora la vita di relazione perché quando si è felici si è meno focalizzati su se stessi, si apprezzano di più gli altri e si è più disposti a condividere la vita con loro.

Ed avere una vita di relazione soddisfacente significa mantenersi in buona salute.
Anche questo è ormai dimostrato: le persone con una vita relazionale ricca ed appagante, oltre ad essere più soddisfatte della propria vita, si ammalano di meno o comunque si riprendono più velocemente dalle malattie. Ecco perché la Biodanza può essere considerata una scuola per la salute e la felicità.

(*) Maria Teresa Giannelli, docente di  “Regolazione dei conflitti interpersonali” alla Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università La Sapienza di Roma. Conduce ricerche su relazioni interpersonali e intelligenza emotiva, conflitto e dinamiche di gruppo, empowerment, creatività e benessere (ha coordinato la Ricerca Biodanza e Benessere cfr Psicologia e Salute 1/20015). Consulente per aziende pubbliche e private, ha pubblicato tra gli altri Comunicare in modo etico, un manuale per costruire relazioni efficaci (Cortina, 2006) e curato La ragione delle emozioni (Borla, 1991).



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